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#diariodibordo Venerdì Santo. Degustazione di birre pugliesi. Alla cie

#diariodibordo Venerdì Santo. Degustazione di birre pugliesi. Alla cieca. Con scheda, tipo le persone serie. È stato bello, ma prima di scrivere ci si doveva riprendere; ci si doveva riflettere. Ogni slancio è stato bloccato dalla Pasqua e dalla sua sorella fricchettona che hanno dato il colpo di grazia. Ancora altro tempo per riprendersi, per riflettere. C’è voluto il logorio imbruttito della fabbrica di stress della routine a farci riprendere dalla nostra ignavia. Ma non lamentiamoci: la dura fatica, il sudore della nostra sempre più calva fronte stampa i soldi coi quali compriamo la dura fatica per il nostro fegato. Che questa paga solo psicologicamente. Come il vincitore del festival di Sanremo proclamato dalla critica. O il tapiro d’oro. O la medaglia per il bambino speciale ai giochi della gioventù. Solo tanti sorrisi.

Nelle prossime righe cercheremo di non sbrodolarci di incenso come un chierichetto inesperto, mancante di supervisione, la prima volta che prepara messa. Umiltà e rispetto; che non siamo Dio in terra e non vogliamo bruciarci con l’incenso; o essere quella sfiga su diecimila, tipo degustatore colpito a ciel sereno da saetta divina. L’affumicato e il bruciato ci piace solo a Bamberga.

Clima più rilassato rispetto alla prima. Abbiamo oliato gli ingranaggi. Non con l’olio, che costa caro, signora mia, ma con la birra. Forse più cara dell’olio. Ma siate buoni, non rovinateci l’immagine mentale.

Pochi meno dell’altra volta, poco tempo per organizzare, poche persone disponibili nei pochi giorni di Pasqua. Poco contante. Tipo che noi siamo i buoni samaritani dell’asse Roma-Bamberga, tipo emorragia di contante a fondo perduto. Fa niente, la passione e la goliardia ci ispirano.
Una decina di persone, una quantità invereconda di birra pugliese tutta incartata con la stagnola, tipo teorico del complotto, ma senza chip impiantati nelle bottiglie.

Schede di degustazione, un set di penne, che le penne a ste cose mancano sempre, un mastro birrario partecipe che ha portato le sue birre e un brivido nel commentare gli assaggi: ognuno poteva essere il suo. E dopo il bottle share.

Tutto bello, tutto perfetto. C’è chi se ne è andato a tarda notte, che chi ha fatto un after post-geek-birrario. C’è chi ha fatto della filosofia.

E c’è in giro qualche mala lingua che, lavorando nel settore, sostiene che non sappiamo distinguere una birra marcia da una buona. Che siamo in cerca solo del soddisfacimento del nostro ego.

Ma chissene’.

Sete di condivisione e fame di sapere generano il nostro appagamento. E non generano il nostro contante, anzi, lo dilapidano.

Per cui, chissene’.

Ora le cose importanti.

La migliore birra della serata è stata la Hopsfull, Black IPA di Rebeers (Foggia): elegante, cremosa e leggermente tostata, con quell’amaro che si fa sentire e ti ricorda essere una IPA; se fatta in UK e bevuta in Italia staremmo già gridando al miracolo.

Secondo posto per interesse suscitato la Grika, IGA a base saison di Daniel’s (Manduria): al naso profumi interessanti anche se non molto intensi (chiodo di garofano, frutta matura e fiori). In bocca, il contributo del lievito saison è evidente e speziato e fruttato si ripropongono fedeli accompagnati da una nota di arancia, crosta di pane e miele. Sono presenti anche note floreali dovute al contributo del vino bianco di Alessano che restano in sottofondo per tutta la bevuta ed emergono sul finale assieme ad una nota citrica. Complessivamente più lato tripel che vieille.

Ora in ordine sparso, tenendo il peggiore per ultimo.

B94, Cavallino. Sant’Oronzo, coffe stout: questa estate l’avevamo trovata metallica (un frullato di chiodi), questa volta era, seppur con qualche spunto fenolico di troppo, una bella birra. Dopo qualche puzzetta iniziale che svanisce dopo pochi secondi è il caffè a farla da padrone, con un bouquet abbastanza ricco e intenso, che esprime anche note acide.

Poi Porteresa, porter del birrificio di cavallino: di difficilissima bevuta, molto più fenolica e sgraziata della Sant’Oronzo.

Sempre da B94 Warning Hop, pale ale vecchia scuola e, almeno questa cotta, francamente deludente. Morta, sgraziata, con un luppolo o usato male o di cattiva qualità, prende presto la via del lavandino. Ce la ricordavamo molto più profumata e fruttata e che virava addirittura verso il succo di albicocche.

Ora, Malatesta, Lecce. Sante, Stout super carbonata che non si è lasciata apprezzare, senza difetti evidenti, ma anche senza lode, che si piazza, senza troppi problemi, nel mucchio selvaggio delle birre che ti dimentichi.

Woolly Bully, sempre Malatesta, bitter di tradizione inglese, ben lontana dagli allori delle grandi, con un po’ di fenolico di troppo, ma piacevole e beverina: Citrico, cereali, erbaceo tutto in un discreto equilibrio. Anche questa nel mucchio.

Il Ratto Matto, Bisceglie. La Janus è una pale ale anonima, con qualche difetto, ma che ha saputo trovare il suo pubblico durante la serata. La Amelie, invece, è una belgian ale che ricorda i nefasti fasti dell’estratto di malto. Era una Leffe Blonde, ma ancora meno godibile.

Daniel’s, Manduria, Pessima, Bock. Al naso sembra più una Amber dark ale: frutta secca, caramello, lieve fenolico. In bocca ha una bella rotondità, ma si rivela un po’ un dolcione. Infine la Cesyt, una brown ale, è stata quella, fra quelle di Daniel’s, a convincerci di meno.

E arriviamo agli ultimi, che in questo caso, purtroppo, non saranno i primi. Old476, Galatina. Davvero, non sappiamo che parole usare. Vorremmo avere tatto, ma al contempo vorremmo essere sagaci e fare battute. Alla fine risulteremmo sempre troppo rozzi e indelicati. Perché parlare male di queste birre è come prendere in giro un bambino con difficoltà, come sparare sulla croce rossa.

Abbiamo assaggiato La Zeit, la loro weisse e la Petra viva, una loro Strong Ale. In separata sede abbiamo anche assaporato l’altra loro Strong Ale, la KateNina.
Nel corso del tempo questo birrificio non sembra aver mai mostrato segni di miglioramento, nonostante venga pompato in alcuni corsi di degustazione e venga continuamente da noi assaggiato sin da tempi non sospetti.

Buttiamo tutto dentro un calderone, tanto le birre sono così piene di problemi che mettersi a differenziare, a spaccare il capello in due, è inutile: gomma bruciata, acetaldeide, cavolo, cavolo marcio, peto, vernice, solvente e chi più ne ha più ne metta.

Aggiungiamo solo che, lasciate aperte a ossidarsi per qualche ora, migliorano. Delle birre ossidate sono migliori delle loro controparti appena aperte, ma siamo seri? Davvero, danno l’impressione delle birre fatte o con un kit o con un impianto non pulito. Non è sicuramente così, ma il gusto è quello. È triste, perché ci dicono che il birrario ci mette tanto impegno. Ma tutti i nostri amici homebrewer fanno birre migliori e lavorano con pentole e frigoriferi modificati.

Non siamo mai riusciti a finire una birra di Old476, spiace per i soldi buttati, ma non per la fiducia accordata: una possibilità si accorda a chiunque. E anche due.

In ogni caso, che fossero buone, meno buone o francamene imbarazzanti, abbiamo cercato di comprare le birre direttamente in birrificio (o di prenderle direttamente dai mastri birrai nei vari eventi che si svolgono in Puglia) perché ci piace l’idea, per i prodotti locali, di andare allo spaccio, fare due chiacchiere e portare a casa qualcosa direttamente dalla fonte. È davvero bello.

Poi, piccolo e vezzoso come una dama giapponese, il bottle share.

Jester King, Autumnal Dichotomous, classe 2015 e un gushing che farebbe invidia alla più grande pornostar. Bene, ma non benissimo.

La Rullquin, blend fra un’acida di Tilquin e una Stout di La Rulles: buona, anche se sgraziata e spigolosa e con del lievito sotto il sughero.

Cantillon, Fou’ Foune, Lambic alle albicocche: aveva subito un po’ il trasporto da Milano, ma meritava ancora tanto.

Hoppin’ Frog Doris the Destroyer, imbattibile Imperial Stout, giusto per farci la bocca: densa, ma non stucchevole, riconferma Hoppin’ Frog come un birrificio maestro nel realizzare birre scure.

Ci siamo concessi anche una Turbacci, crediamo infettata e ossidata, e abbiamo assaggiato anche una birra realizzata col mosto del vino tipico delle trattorie romane, ma ci sfugge birra e birrificio.

Per concludere, le birre prese da uno stesso e noto locale di Bari città, tutte ossidate e malate di colpo di luce, pezzi da 90 da travasare nel vaso da notte. Ma ne avremo modo di parlare più in là.

Perfetta, perfetta è stata la fantastica atmosfera del Prophet Pub di Lecce, dal 2000 un punto di riferimento per tutti gli appassionati, e perfetta è stata la compagnia di Simone Pagliaro, mitico publican che ci ha fatto sentire a casa. Lo vogliamo ringraziare per essersi seduto con noi, per l’entusiasmo, per la facilità con cui le sue emozioni si riaccendono costantemente nonostante tanti anni di logorante lavoro. Per diverse coincidenze, qualcuno lo ha definito il Colonna di Lecce e crediamo che nessun epiteto possa essere più lusinghiero.

Forse saremmo potuti essere così felici solo a Bamberga (chicchirichì), ma la Germania è lontana, il qui e ora è vicino. È stato formativo, è stato conviviale, siamo cresciuti tutti: gli esperti hanno scoperto qualcosa di più, i neofiti si sono sentiti liberi di dire quello che pensavano, di sentirsi inclusi.

Questa estate si ripete, nel frattempo ci si stappa un’altra birra. E si sogna Bruxelles.

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